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Prima ancora di nascere il nostro bambino è già un raffinato ascoltatore di parole. Nell’ultimo trimestre di gravidanza ascolta le parole della mamma, impara a riconoscere i suoni contenuti in ognuna di esse e lo fa attraverso la musicalità delle vocali. Il suo cervello, anche se ancora molto immaturo, lavora tantissimo per memorizzare i suoni che costituiscono ogni parola. E non si limita soltanto a questo: ascolta la ritmicità della lingua e impara a distinguerne caratteristiche e accenti. Alla nascita, questo apprendimento lo aiuterà a rivolgersi con più interesse verso la mamma, perché la riconoscerà dal timbro della voce e dalla melodia che fuoriesce dalla sua bocca. Parlare al feto, quindi, fa bene, senza considerare il fatto che cantare è anche un passatempo rilassante per la donna in gravidanza.
Uno studio ha “misurato” la quantità di parole rivolte a un campione di neonati ricoverati in ospedale perché nati pretermine con un peso scarso, rivelando delle notevoli differenze: mentre alcuni bambini ascoltavano poco più di cento parole all’ora, altri arrivavano fino a ventiseimila parole per ogni ora. È noto che mentre alcuni genitori chiacchierano poco con il loro bambino, altri si esercitano parecchio in tale pratica. Il dato interessante è che l’enorme differenza nel numero di parole ascoltate si è tradotta, alcuni anni dopo, in un linguaggio migliore per quei bambini che avevano ascoltato più parole dai loro genitori.
Ma i bambini, pur se piccolissimi, desiderano anche esprimersi: i ricercatori dello studio citato hanno osservato che quando i genitori parlavano rivolgendosi ai neonati, questi ultimi vocalizzavano come se volessero “fare conversazione”. È proprio così, i neonati desiderano ascoltare le nostre parole, ma solo quelle che rivolgiamo loro, e vogliono parlarci con un soffio di voce, un breve vocalizzo, un gemito. Per loro si tratta già di bei discorsi da fare a mamma e papà.
Ai lattanti piace moltissimo che ci si rivolga loro in " mammese" cioè attraverso quello speciale linguaggio cantilenato, fatto di frasi brevi e ripetitive, con una tonalità alta, un tempo lento e un timbro di voce dolce. Oltre ad apprezzare questa maniera un po’ buffa di esprimersi, i bambini, attraverso il mammese, imparano meglio le parole e mantengono l’attenzione per un tempo più prolungato rispetto a quando si parla loro con voce “normale”. Nessun papà dovrebbe quindi vergognarsi di esprimersi in questa lingua speciale. È importante però rivolgersi verso il bambino, rispettando i turni di conversazione (sì, anche lui vuole rispondere ai nostri discorsi) e, soprattutto, guardandolo in viso e negli occhi. Se notiamo che il bambino distoglie lo sguardo da noi o inizia ad agitarsi, ad esempio inarcando la schiena, non insistiamo e lasciamolo riposare un po’. Per un bambino così piccolo, ascoltare e “parlare” richiede grande attenzione, un’attenzione che, a volte, può durare anche solo pochi minuti.
«Ma cosa gli racconto? Non sono un chiacchierone e non ho molto da dire» potrebbe essere la contestazione di qualche papà – o di qualche mamma – di poche parole. Tuttavia non è necessario essere dei narratori esperti per parlare al proprio bambino: sarà sufficiente raccontargli delle semplici routine casalinghe, anche solo quello che stiamo facendo. Al bambino basterà sentire il tono melodioso e dolce della voce del genitore per rimanere attento. Se gli si parla usando modi positivi, con un bel sorriso, un volto sereno e guardandolo negli occhi, l’apprendimento è assicurato.
I giochi di parole come filastrocche, rime, allitterazioni e così via, oltre a far divertire i bambini, svolgono una funzione speciale: insegnano loro a distinguere le parole e le parti in cui possono essere scomposte indipendentemente dal loro significato. I bambini piccoli, immersi in questo gioco di poesia e musica, imparano così a percepire e a riconoscere le parole in modo molto dettagliato, con minor fatica e con tanto divertimento. Insomma, si tratta di un gioco, ma è pur sempre un gioco molto serio che offre la possibilità al bambino di affrontare meglio le future prove della scuola elementare.
Nel primo anno di vita, i libri con immagini di volti sono quelli che suscitano maggiore interesse da parte dei bambini, così come quelli in cui compaiono brevi poesie e filastrocche. In seguito, dal secondo anno di vita, i libri che ritraggono oggetti o piccole scene, accompagnati da semplici frasi, sono tra i più gettonati. Compiuti i 2 anni, le storie, dapprima con pochi personaggi e uno svolgimento semplice, e poi sempre più ricche di soggetti e particolari, sono le predilette dai bambini. In generale, però, la caratteristica che rende unici i libri per bambini è che bisogna essere in due per leggerli.
Nessun bambino può imparare da solo a leggere. È il genitore che sta al suo fianco, o ancor meglio che lo avvolge in un abbraccio mentre gli legge una storia, a insegnargli le parole. A seconda dell’età del bambino, sarà facile trovare un modo per coinvolgerlo: indicando l’immagine nella pagina, facendo qualche semplice domanda, chiedendo di ripetere qualche parola o un particolare della storia…
Nei primi anni di vita guardare la TV o un tablet, anche se interattivo, non solo non aiuta ad arricchire il linguaggio, ma ne rallenta addirittura lo sviluppo. Mentre un genitore racconta che suo figlio, ad appena un anno, «guarda attento i cartoni animati», forse quel bambino sta dimenticando le parole.
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